Il blog "Le Russie di Cernobyl", seguendo una tradizione di cooperazione partecipata dal basso, vuole essere uno spazio in cui: sviluppare progetti di cooperazione e scambio culturale; raccogliere materiali, documenti, articoli, informazioni, news, fotografie, filmati; monitorare l'allarmante situazione di rilancio del nucleare sia in Italia che nei paesi di Cernobyl.

Il blog, e il relativo coordinamento progettuale, è aperto ai circoli Legambiente e a tutti gli altri soggetti che ne condividono il percorso e le finalità.

"Le Russie di Cernobyl" per sostenere, oltre i confini statali, le terre e le popolazioni vittime della stessa sventura nucleare: la Bielorussia (Russia bianca), paese in proporzione più colpito; la Russia, con varie regioni rimaste contaminate da Cernobyl, Brjansk in testa, e altre zone con inquinamento radioattivo sparse sul suo immenso territorio; l'Ucraina, culla storica della Rus' di Kiev (da cui si sono sviluppate tutte le successive formazioni statali slavo-orientali) e della catastrofe stessa.

10/01/18

01/07/2017: VIAGGIO NELLE TERRE DI ČERNOBYL’



Pubblichiamo il bel racconto di Francesca De Santis, nostra amica e collaboratrice, sulla sua visita alla zona di Černobyl’ dell'estate scorsa.


01/07/2017: VIAGGIO NELLE TERRE DI ČERNOBYL’

Sin da piccola sono sempre stata quasi morbosamente interessata alla catastrofe di Černobyl’. Sarà per quell’amica venuta da lontano, con cui trascorrevo le mie estati d’infanzia al mare, sarà per la passione per l’Europa dell’Est che si è poi sviluppato durante gli anni universitari.

Non so cosa esattamente mi abbia spinto a farlo, ma a fine giugno decido finalmente di intraprendere il mio breve viaggio in solitaria verso Kiev, un viaggio a lungo meditato e sempre rimandato.

Trascorro due giornate di sole splendente nella capitale ucraina, con una calda e festosa atmosfera estiva che ha accompagnato le mie lunghe camminate per la città. Il terzo giorno del mio soggiorno è dedicato alla visita guidata alla zona di esclusione di Černobyl’. Per motivi di sicurezza, è impossibile accedere all’area senza una guida autorizzata.

Quasi a voler darne la giusta cornice, il clima cambia radicalmente: la giornata fin dalle prime luci dell’alba si fa grigia, umida. Spenta. Giungo di buon mattino al punto di ritrovo per il tour guidato, la stazione di Kiev. Lì vi trovo già una quindicina di persone radunate. Mi avvicino a una delle guide, porgendogli il mio passaporto per la registrazione, e questo mi guarda stranito. “Sicura di non esserti sbagliata, forse dovresti andare con il gruppo con la guida in inglese”. Mi volto verso il pullman vicino al quale si era raggruppata un po’ di gente allegra e schiamazzante. Mi convinco ancor di più di aver fatto la scelta giusta, volgendo poi il mio sguardo ai 4 ragazzi ucraini che diventeranno i miei compagni di viaggio per un giorno. L’aria riservata, taciturni, mi guardano tutti tra lo stranito e l’incuriosito: una ragazza italiana, da sola, a Kiev, diretta a Černobyl’.

Iniziamo il nostro viaggio, lasciandoci alle spalle la capitale e attraversando chilometri di anonima periferia. Dopo circa un’ora e mezza raggiungiamo il celebre check-point Ditjatki, punto di racconta, di controllo dei documenti e di accesso all’area di esclusione (così viene chiamata l’area compresa nell’arco di circa 30 km dalla centrale nucleare, dove è proibito vivere e accedere senza regolari permessi).

Fin qui sembra quasi di partecipare ad una visita turistica come tutte le altre, se non fosse per i serissimi uomini in divisa che è vietato fotografare: bancarelle che vendono ogni sorta di souvenir, maschere antigas, cartoline, portachiavi, magliette, tutti gadget che espongono quasi con ironico orgoglio il simbolo della radioattività. Il business del turismo non ha pietà nemmeno per le grandi tragedie. I turisti, curiosi e sorridenti, in attesa di ottenere l’autorizzazione ad accedere nell’area proibita, si scattano fotografie accanto a un carrarmato perfettamente funzionante, anch’esso rigorosamente dotato del marchio di “pericolo radioattivo”.

Il mio gruppo ottiene il permesso ad entrare per primo, forse per il ristretto numero di partecipanti, forse perché composto solo da gente del posto. Ci addentriamo nella zona di esclusione percorrendo ancora qualche chilometro sul nostro pulmino, con quel misto di curiosità, aspettative non ben definite e anche un po’ di timore. Tutto è avvolto da un surreale silenzio, una lunga strada asfaltata e tutt’attorno, all’apparenza, nient’altro che boschi. Lungo la strada ci fermiamo e ci addentriamo a piedi nel bosco, per scoprire sin da subito i resti di quello che un tempo era un villaggio, uno tra tanti, nel quale la vita scorreva nella sua quotidianità senza pretese. Ormai quasi totalmente inghiottiti dal bosco, un negozio di generi alimentari, una scuola, un ospedale, modeste case di campagna.

Proseguiamo la nostra escursione e ci fermiamo lungo le rive di un laghetto. Una zona con un livello radioattivo molto alto, come ci fanno notare i nostri dosimetri che, avvicinandosi al terreno, iniziano a suonare all’impazzata. E qui, proprio dove sembra che il mondo si sia fermato, in un luogo apparentemente disabitato e dimenticato da Dio, osserviamo le tracce della presenza umana che si rivela, come spesso capita, irrispettosa: bottiglie vuote, lattine, sacchetti di plastica, a dimostrare che realmente ci sono persone che accedono illegalmente alla zona di esclusione, dedicandosi a picnic a base di radioattività.

Con la pioggia che inizia a diventare più intensa, ci fermiamo poi nella cittadina di Černobyl’, dove un toccante memoriale è composto da un monumento di un angelo realizzato in ferro e un viale affiancato dai cartelli stradali riportanti i nomi di tutti i paesi e villaggi che sono stati annullati, cancellati, dal disastro nucleare. Leggendo i nomi di anonimi villaggi che si susseguono l’uno dopo l’altro, si ha la stessa percezione di sacralità che si può avere percorrendo il viale principale di un cimitero.

Sotto la pioggia battente raggiungiamo poi la città simbolo di questa tragedia: Pripjat’, un tempo città satellite della centrale nucleare, ora un non-luogo dalla forte carica emotiva. Le forti precipitazioni trasformano la visita in una sfida continua tra macerie, edifici cadenti e la prepotente natura rigogliosa.

Girando per le strade di Pripjat’, il cui asfalto è stato in molti punti sopraffatto dalle possenti radici della natura, è difficile immaginare che proprio lì, poco più di 30 anni fa, c’era una città dotata di infrastrutture all’avanguardia, costruita con tutti i comfort che l’epoca sovietica poteva concedere ai suoi abitanti, le famiglie dei lavoratori impiegati nella centrale di Černobyl’. Un cinema, un teatro, delle palestre, un parco giochi, una piscina, sale da ballo e da concerto.

Entrare negli edifici, per ovvi motivi di sicurezza, è vietato. La polizia gira per le strade per assicurarsi che le regole vengano rispettate. Poiché il nostro è un gruppo piccolo, la guida ci fa comunque accedere in diversi edifici e ci propone di salire fino al sedicesimo piano di uno degli edifici più alti della città: bisogna fare in fretta, per evitare di farsi notare. Sedici piani di scale pericolanti fatte di corsa, con il fiato sospeso, tra mura scrostate e finestre semi-distrutte, calpestando qua e là vetri infranti e assi di legno crollate. Una volta su, però, la vista è spettacolare e desolante allo stesso tempo. Chilometri e chilometri di boschi, piccoli laghi, mentre qua e là spuntano stoicamente i grigi edifici della città. In lontananza la Bielorussia.

La scuola elementare, con ancora tutti i lettini disposti l’uno accanto all’altro, sul pavimento quaderni e bambole. La palestra impolverata e pericolante, il campo da calcio che ora sembra solo un grande spiazzo vuoto, il parco giochi mai inaugurato, la cui ruota panoramica, congelata nel tempo e nella ruggine, è diventata l’immagine simbolo di questa tragedia.

Ci vuole un certo sforzo immaginativo per riuscire a rappresentarsi la vita, tra quei palazzi grigi. Una vita normale, prima dell’invisibile tragedia. L’impressione è quella di muoversi all’interno di un videogioco ambientato in scenari post-apocalittici. Scopro poi, senza grande stupore, che un famoso gioco per computer è ambientato proprio tra le strade della città di Pripjat’.

Gli ultimi attimi della visita sono momenti prettamente turistici: l’ultima tappa è la centrale, ma durante il percorso sostiamo lungo il canale che serviva da sistema di raffreddamento. In esso nuotano dei pesci gatto dalle dimensioni considerevoli, le quali non sono dovute tanto a mutazioni genetiche causate dalle radiazioni, quanto piuttosto al continuo nutrimento che gli viene offerto dai numerosi turisti. E così anche noi ci sottoponiamo a questo rito, lanciando loro briciole di pane recuperato in mensa durante il pranzo.

Infine la foto ricordo davanti alla centrale: la nuovissima copertura in acciaio è stata posizionata solo pochi mesi fa, verso la fine del 2016. Una struttura mastodontica e all’avanguardia, costata circa 2 miliardi di Euro, che dovrebbe arginare la fuoriuscita di radiazioni per i prossimi 100 anni. Dopo la foto ricordo sorridenti e bagnati fradici, risaliamo sul nostro pulmino lasciandoci alle spalle la centrale, attraversiamo la famosa foresta rossa e ci dirigiamo verso l’uscita. Prima di lasciare l’area, però, bisogna effettuare il controllo del livello di radioattività assorbita, attraverso macchinari dall’aria estremamente sovietica. I livelli sono nella norma, risaliamo quindi tutti sul pulmino per rientrare a Kiev.

Una volta nella mia camera d’albergo, faccio un sacchetto e butto tutti i vestiti che avevo indosso quel giorno, scarpe comprese. I miei vestiti sono usciti indenni dal controllo, la dose di radioattività assorbita è nettamente inferiore al livello massimo consentito dalla legge, eppure sento il bisogno di sbarazzarmene.

Dopo una giornata trascorsa nell’area contaminata, ho la sensazione che le radiazioni siano ovunque, pericolo invisibile che si insinua silenziosamente sotto pelle.

Eppure, percorrendo la zona di esclusione in questa atmosfera così irreale, non è tanto il pericolo per la salute la cosa che più rimane impressa, quanto la straordinaria forza della natura, la sua capacità di riadattarsi, il verde rigoglioso che riprende orgoglioso possesso di quanto un tempo era stato suo.

Francesca De Santis


L'immagine può contenere: pianta, albero, spazio all'aperto e natura 

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